domenica 6 settembre 2015

La vita è un “ciclo”


La vita è un “ciclo”

Carlo Braga
   

 “Hai voluto l’olandese? Ora pedala!!!”
 Henry di Haarsteeg




«E Berlusconi?» Sorrisino. «Cosa mi dici di Berlusconi?»
Quest’anno avevo proprio il timore di sentirmi porre questa domandina. Mia moglie è olandese e, come tutte le estati, ci rechiamo in vacanza per una settimana nel suo paese a fare visita a parenti, amici e mucche. Un posto fantastico, a misura d’uomo e di donna, dove tutto funziona alla perfezione, i bambini giocano per le strade e le auto si fermano per farli passare... e soprattutto chi va in bicicletta gode del massimo rispetto.
Capirete... noi viviamo a Milano dove è tutto il contrario!
Poi ci sono gli olandesi, gente veramente molto simpatica, grandi amici, persone superaffidabili, molto ospitali (sì, molto più dei milanesi) ma con un tantino (eufemismo) di egocentrismo e di onnipotenza che credo non abbia paragoni nelle altre nazioni europee. Loro sanno fare tutto meglio degli altri, loro sono più bravi in tutto, loro sono “i campioni del mondo” e devono sempre dimostrartelo, con le parole e i fatti. E con il sorrisino. Sì, con il sorrisino perché se malauguratamente ti capita di sbagliare, anche solo un accento, nella pronuncia della parola più difficile del loro vocabolario, prima ti correggono e poi fanno quel sorrisino irritante che vuol dire: “Ok, va bene ugualmente perché sei mio amico ma tu non capisci nulla o quasi, si vede che sei italiano, noi non sbagliamo mai e noi siamo semplicemente molto, ma molto più bravi di te”.

Potete immaginare, pertanto, a quali “pressioni” sia sottoposto nel periodo che precede la mia partenza per i Paesi Bassi: per affrontare fuori casa i “tulipani” occorre, infatti, allenarsi e farsi trovare preparati fisicamente e psicologicamente perché, dal momento in cui si varca la frontiera, inizia una competizione serrata senza esclusione di colpi. Invece di rilassarmi in vacanza, come tutte le persone comuni, mi tocca cimentarmi in mille gare dialettiche e sportive, neanche fossi il capitano degli “azzurri” in procinto di giocare all’Amsterdam Arena contro la Nazionale olandese. È una lotta impari, io solo, in trasferta, contro tutti. D’altra parte questo mi tocca e questo è quello che offre il pacchetto “vacanze Nederland”. Quindi, considerando il fatto che quest’anno l’Italia non ha vinto i mondiali di calcio, che il triplete  dell’Inter comincia ad essere un po’ datato e che nessun talento italiano ha vinto il Nobel per la chimica o la letteratura, non avevo alcun bonus da giocarmi e temevo molto la domandina “E Berlusconi?”. Sorrisino. “Cosa mi dici di Berlusconi?”. Cioè la domanda che qui ha, di recente, sostituito i vecchi luoghi comuni sugli italiani relativi a pizza, spaghetti e mafia.
 Avrete compreso come il mio soggiorno in terra d’Olanda rischi di trasformarsi ogni volta in una sorta di reality show o meglio di Giochi senza frontiere, con tanto di fil rouge e jolly per raddoppiare il punteggio. Ricordo quella volta che ho dovuto, senza possibilità di autoescludermi, partecipare alla mega gara di Go-Kart organizzata dal Motorbike Club del fratello di mia moglie che si chiama Carlo come me. Guarda un po’, i mitici olandesi che fanno tutto meglio, ci copiano pure i nomi. Ovviamente ero la vittima sacrificale perché si correva su un circuito che loro conoscevano e sul quale già si erano allenati. Il famoso sorrisino era già scattato ancor prima della partenza. Avevo tutti gli occhi puntati su di me, dentro quella tuta di dimensioni locali (quindi enormi per la mia stazza) e con quel casco integrale in ghisa che già mi aveva procurato un principio di cervicale. Dopo tre o quattro giri compiuti a velocità ridicola, con i ragazzotti del club che mi passavano a ripetizione, feci ricorso a tutto l’orgoglio italico e, con l’acceleratore pigiato a manetta, tirai fuori dal cilindro la prestazione perfetta, compiendo un giro pazzesco. Il regolamento premiava chi faceva il miglior tempo sul giro e con quella performance miracolosa mi aggiudicai il secondo gradino del podio a pochissimi centesimi dal vincitore. Il tutto ovviamente fra l’incredulità generale e la dovuta ammirazione. Da quel giorno, per loro, sono “Jos the boss”, da Jos Verstappen, unico pilota di lingua olandese ad aver corso negli anni novanta in Formula 1 con risultati, peraltro, abbastanza scadenti.
 Mi torna alla mente, con malcelato orgoglio anche una serata in famiglia dedicata ai giochi di società. Trivial pursuit è un gioco da tavolo, prodotto e distribuito in quasi tutti i paesi, in cui i partecipanti misurano la propria abilità nel rispondere a domande di cultura generale. Nel mio background di giochi di società, prima di quella serata piovosa, trascorsa a casa dei parenti di mia moglie, rientravano solo il Monopoli e il Risiko; giochi, per intendersi, in cui le capacità intellettive non contano un granché. A casa degli zii si era presentata una compagine di giocatori molto selezionata convinta di saper rispondere a domande di ogni genere. C’era la zia insegnante di scuole superiori che dettava le regole con fare saccente, c’era l’ingegnere, manager Philips, con il sorrisino perennemente stampato sul viso, c’era un ex dipendente statale della pinacoteca di ‘s Hertogenbosch e c’era anche la cugina che conosceva in maniera minuziosa la storia dei reali olandesi da Willem van Oranje-Nassau ai giorni nostri. Io e la mia consorte stavamo solo effettuando la consueta visita annuale ma, ben presto, ci trovammo invischiati in questo torneo di “soloni”. I bookmakers davano favoritissimi l’ingegnere e la cugina. Mia moglie era collocata in seconda fascia, appaiata all’insegnante e alla sorella, poi, buon ultimo, lo “statale”. Lo zio, scarsamente considerato in famiglia, un altro cugino un po’ sempliciotto e il sottoscritto, non eravamo neppure quotati.
 In tale contesto rammento, con un pizzico di soddisfazione, la gaffe dello “statale” che, all’ennesima domanda sul Rinascimento, si era impuntato nel sostenere che la storia della pittura aveva i suoi massimi esponenti in Rembrandt e van Gogh. Ricordo poi, con un certo compiacimento, l’espressione sorridente dell’ingegnere che, ad ogni mia risposta esatta, si trasformava in una miscela di stupore e nervosismo fino a divenire una smorfia di rassegnazione.
 Al di là di una normale cultura generale, di cui sono dotato, ero stato fortunato perché la maggior parte delle domande verteva su argomenti di storia e geografia, temi che, da sempre, mi appassionano. La mia vittoria finale non venne però accettata molto bene. Fu considerata un evento inaspettato, una sconfitta personale, familiare e nazionale. Servì però al sottoscritto per acquisire qualche punticino per il reality ed un credito superiore all’interno della famiglia.
Non sempre la buona sorte però è stata dalla mia parte. Ho invano cercato di dimenticare quella volta che, stupidamente, mi sono fatto trascinare da Carlo nella sfida impossibile da vincere: bere il maggior numero possibile di birre. Ammetto di essere stato presuntuoso e sprovveduto nell’accettare un simile duello contro un professionista olandese nel pieno della forma agonistica; aveva allora 25 anni. Devo dire che Carlo era stato molto sportivo perché, con l’usuale ironia, aveva proposto, come luogo della contesa, un magnifico bar allestito in una chiesa sconsacrata, asserendo che, essendo io un vero italiano cattolico (il paese del Papa), ne avrei tratto un indubbio vantaggio. Alla terza birra credevo ancora di poter sbeffeggiare l’avversario, alla quarta il ginocchio destro cominciò a traballare, alla sesta parlavo perfettamente l’olandese e alla settima pure il dialetto del Nord Brabant, all’ottava mi imboscai spudoratamente nel confessionale sperando di non essere più ritrovato, alla decima, dopo aver cantato a squarciagola London calling dei Clash, alzai mestamente bandiera bianca. O meglio bandiera rossa, bianca e verde, perché in questo campo, con gli orange, proprio non possiamo competere. L’umiliazione finale arrivò alla ventunesima birra ordinata da Carlo. Dopo averla trangugiata in un solo sorso, lo sentii esclamare ad alta voce: «Per questa sera basta. Domani devo uscire a bere seriamente con i miei amici!» Ovviamente, il tutto, con l’aggiunta del classico sorrisino.
 In passato ho avuto il piacere, o la sfortuna, dipende dai punti di vista, di partecipare ad una delle cose più affascinanti ed incomparabili che si possono fare in Olanda, quando per alcuni giorni la temperatura scende al di sotto dello zero e canali, fiumi e piccoli laghi ghiacciano: andare a pattinare in compagnia, in mezzo alla natura. È l’evento nazionale anche perché non succede più così di sovente: le scuole chiudono per consentire ai bambini di divertirsi, spuntano come funghi baracchini dotati di leccornie e bevande, piccoli bar improvvisati sorgono in ogni dove e tutta la popolazione si riversa sui canali. Si improvvisano ogni tipo di evoluzioni, piroette e balletti sul ghiaccio all’aria aperta. C’è solo un piccolo, anzi piccolissimo, diciamo impercettibile, problemino: “Bisogna essere capaci di pattinare!!!”. Lascio umilmente ai lettori la possibilità di immaginare il sottoscritto alle prese con questa strana pratica e chiedo clemenza alla vostra fantasia. Aggiungo solo questo: come al solito, per venirmi in aiuto, i cari amici olandesi mi misero a disposizione dei pattini fatiscenti, di tre numeri più grandi, ritrovati nel sottotetto di nonno Harrie che molto probabilmente appartenevano al protagonista di Pattini d’argento, famoso romanzo per ragazzi scritto nel lontano 1865 da Mary Elisabeth Mapes Dodge.
 Ma torniamo all’agosto di quest’anno, ai miei timori prima della partenza per il reality 2013 ed al mio arrivo ad Haarsteeg. Dopo aver viaggiato per 1.000 km sorbendomi code titaniche sulle “efficientissime” Autobahnen tedesche, mi accingevo a scaricare dall’auto le borse e la mia inseparabile bicicletta da corsa.
All’improvviso, proprio davanti al muso dell’autovettura si materializzò Henry, con una proposta che certamente mi aspettavo ma, di certo, non con tale solerzia.
 Henry, cugino di mia moglie, in paese era conosciuto come “il testardo”. Aveva un trascorso da motociclista professionista, con alcune gare nel campionato europeo e una reputazione adeguata al suo glorioso passato. La leggenda narra che avesse deciso di prendere la patente per la moto ex post, cioè solo dopo aver vinto diverse gare su circuiti minori. Si racconta che, contrariamente a quanto avviene di solito, non fosse Henry ad essere preoccupato per l’esame ma l’esaminatore della scuola guida. Quest’ultimo, dopo aver passato la notte in bianco, si presentò all’appuntamento attanagliato dalla paura. I suoi timori, in effetti, si rivelarono fondati: alla prima piega in curva effettuata, ovviamente, a velocità supersonica, egli venne clamorosamente disarcionato e perso per strada. Anche dopo essersi ritirato dalle corse motociclistiche, Henry non perse però l’amore per le due ruote passando direttamente a quelle azionate dai pedali: la bicicletta.
 Il ciclismo su strada è una mia grande passione, anzi, a dirla tutta, è il mio sport preferito. Fra i tanti che esercito per diletto, per mantenere un po’ di forma fisica o perché semplicemente non posso farne a meno, è sicuramente quello che mi dà più soddisfazione. Poco prima di partire per l’Olanda, tra l’altro, la mia popolarità “pedalatoria” aveva raggiunto il suo massimo splendore. Stavo pedalando nell’Eden della bicicletta, sul Passo Pordoi che è un classico delle Dolomiti spesso percorso dai corridori del Giro d’Italia quando, per pura casualità, mi imbattei in alcuni amici. Alcuni di loro, simpaticamente, vollero fotografarmi, stile vincitore di tappa, con le splendide vette dolomitiche sullo sfondo. La cosa destò la curiosità di una comitiva di turisti giapponesi che si trovava nei pressi. Prima in due, poi in quattro ed infine, per reazione a catena, tutto il gruppone nipponico scese appositamente dall’autobus e mi prese d’assalto immortalandomi da tutte le posizioni. Mi avevano clamorosamente scambiato per un ciclista famoso ed avrei anche potuto firmare qualche autografo se la loro proverbiale timidezza non li avesse trattenuti dal richiedermelo!
 Insieme ad Henry, invece, avevo già pedalato una volta in Liguria. Sull’Aurelia in pianura era stato un piacevole allenamento ma, non appena eravamo entrati nell’entroterra e la strada aveva cominciato a inerpicarsi, il nostro prode olandese aveva prima perso immediatamente terreno ed era poi caduto in una profonda crisi. “La montagna è solo per pochi” diceva il compianto Marco Pantani. La salita non faceva per lui e la paga (termine per definire dal punto di vista ciclistico una lezione) subita era stata memorabile. Non l’aveva mai digerita. Avevo saputo da amici comuni che negli ultimi tempi si stava preparando in maniera meticolosa ed aveva notevolmente intensificato gli allenamenti.
 Quindi, quando lo vidi arrivare a casa nostra, avevo da subito intuito che mi avrebbe proposto un’uscita in bici. Ora che aveva raggiunto una condizione fisica invidiabile, covava la sospirata vendetta.
 All’appuntamento, fissato per il giorno successivo, mi ritrovai con Henry ed una dozzina di semiprofessionisti appartenenti tutti alla stessa squadra. Il carbonio la faceva da padrone ovunque, manubri a corna di bue e ruote lenticolari non mancavano, insieme a qualche cambio elettronico di ultima generazione. Un team di gente superallenata che stava preparando per la fine del mese di agosto una rinomata Granfondo di 190 km in Francia. Una roba mica da scherzare. Una maratona alpina di cinque colli fra i quali la mitica Alpe d’Huez. Venni accolto, a parte il solito sorrisino generale, che ormai do per scontato ad ogni manifestazione, da ironici complimenti rivolti al mio buon inglese in relazione alla mia provenienza italica e da un incedere di domande rivolte a conoscere le prestazioni del “mio mezzo”. Capii da subito che quell’uscita in bici non sarebbe stata una semplice passeggiata. Nessuno aveva intenzione di scherzare e il cugino era agguerritissimo e voglioso di mettersi in mostra. Ero però preparato a qualsiasi evenienza perché chi pratica questo sport conosce la fatica e sa che in bici bisogna essere pronti a tutto.
 Il ciclista peggiore che si può incontrare sulle strade è il succhiaruote: cioè colui che si appiccica alla tua ruota posteriore per sfruttarne la scia. Il “giochino” gli consente di non esporsi al vento e di risparmiare, in questo modo, almeno il 20-30% delle energie rispetto a chi sta davanti. Ti accorgi della sua presenza sentendo un respiro “alieno” alle spalle. Respiro che quando risulta essere affannato è sinonimo della notevole fatica cui il succhiaruote va incontro per sostenere il tuo ritmo. Generalmente non ti saluta, cerca di non guardarti negli occhi e nemmeno ringrazia per lo sforzo che gli fai risparmiare. È viscido. Sa di non essere corretto e quando per forza deve interloquire, perché sollecitato, ti dice che in conseguenza di una caduta non è allenato come vorrebbe (solita grande palla). Alla prima asperità, dopo aver sfruttato il tuo lavoro per parecchi chilometri, scatta come un forsennato superandoti di slancio. Appena gli si prospetta l’occasione, però, devia dalla strada principale e rallenta penosamente fino a fermarsi del tutto, sfinito dallo sforzo profuso. È un vero verme, inclassificabile. Quando ci si imbatte in questi mezzi uomini ci sono tre soluzioni da intraprendere a seconda della propria saturazione o incazzatura: A) accelerare brutalmente per disfarsi del succhiaruote; B) rallentare notevolmente portandolo a stufarsi del basso ritmo; C) prendere strane traiettorie per indurlo a finire in qualche buca in quanto, essendo dietro, il bastardo non può vedere bene il manto stradale.
 Altro personaggio tipico è il competitivo, il ciclista che ama sempre gareggiare. È una caratteristica di quasi tutti quelli che si cimentano in questo sport. Quando sulla strada trova un altro ciclista, egli si rivitalizza improvvisamente e comincia a menare. Imprime, cioè, alla sua pedalata una velocità superiore che raggiunge l’apice nel momento del sorpasso, quando esercita il massimo dello sforzo per umiliare il malcapitato competitor. Quest’ultimo, a sua volta, risponderà alla sfida cercando di non farsi distanziare perché anche lui è quasi sicuramente un ciclista competitivo. Occorre segnalare che, purtroppo, una parte di questi, la più aggressiva ed ossessionata dal risultato, fa spesso uso di sostanze dopanti. Tali soggetti, drogati dalla fame di successo, prenderebbero l’EPO anche per andare a fare la spesa in bicicletta.
 C’è poi il mezzo ciclista che viaggia sempre con estrema calma, anzi proprio non viaggia. Al semaforo rosso si accende la sigaretta, porta sempre pantaloni lunghi anche in piena estate, ha generalmente una grossa pancia evidenziata dalla maglietta attillata e pedala con le gambe larghe, per via della pancia stessa. Dico sempre agli amici che quando mi vedranno assumere in sella alla bicicletta una posizione simile dovranno avvertirmi perché significa che è giunto il momento di appendere la bici al fatidico chiodo. Fulgido esempio di tale personaggio è il ragionier Fantozzi nel famigerato episodio in cui si cimenta in una gara ciclistica organizzata dal megadirettore, ovviamente appassionato di ciclismo.
 Altra categoria da cancellare è quella dei porta sfiga. Mi capita spesso, in allenamento sul Lago Maggiore, di attraversare il confine in direzione Locarno. Immancabilmente mi imbatto in un doganiere svizzero che, con perfetta cadenza ticinese (stile Aldo, Giovanni e Giacomo in Mai dire gol), mi dice: «Ce l’hai il documento? Mica per altro, mica perché ho paura che fai il contrabbando, perché se ti capita di cadere, che perdi i sensi, poi l’autista dell’autolettiga come fa a sapere chi sei?» ...E non aggiungo altro.
 C’è poi il gregario, figura che anche i meno competenti conoscono e che non rientrerebbe nel mio elenco perché appartiene al mondo professionistico; non mi dilungherò, pertanto, nella sua descrizione. Merita però una citazione perché per abnegazione, sacrificio, fatica e umiltà appartiene alla mitologia di questo sport. Anche senza finire sulle prime pagine dei giornali ha contribuito a scrivere la storia del ciclismo, tanto quanto il grande campione.
Tornando a bomba, questa volta non intesa come doping, sulla mia “uscita con cugino”, è chiaro ormai a tutti che quel gruppo di ciclisti apparteneva alla categoria di atleti così definiti competitivi. Trainati principalmente da Henry, riuscimmo a percorrere, a velocità esasperata, 170 km incredibilmente spettacolari e divertenti, durante i quali il buon Davide Cassani avrebbe magistralmente saputo elencare tutti i rapporti usati dai partecipanti. La media rilevata a fine pedalata risulterà essere molto alta: 36,5 km orari. In mezzo a quel tourbillon arancione di assatanati, mi difesi alla grande, senza ricorrere a sostanze illecite (contrarie alla mia etica “professionale”) e senza avvalermi della protezione della Madonna del Ghisallo. Sono convinto che anche il grande Michele Bartoli, vincitore di una Amstel Gold Race, classica in linea che si svolge da queste parti, non sarebbe riuscito a fare di meglio.
 A sorpresa però, chiudo qui il mio racconto lasciandovi volontariamente nel dubbio su cosa realmente pensino gli olandesi di Silvio B., e su come sia andata a finire la fatidica pedalata nella terra dei mulini a vento... perché questa storia ha ancora numerosi aneddoti che meritano di essere raccontati ed è tuttora in divenire.1
 Vi do appuntamento alla prossima puntata, augurandomi di non avervi annoiato più di tanto con il mio monologo e nella speranza di essere riuscito a strapparvi qualche sano “sorrisino italiano”. Mi congedo con una significativa frase di Mario Cipollini che vale molto di più di tante parole: “La bicicletta ha un’anima, se si riesce ad amarla vi darà emozioni che non dimenticherete mai.”

1. “E tramonta questo giorno in arancione e si gonfia di ricordi che non sai, mi piace restar qui sullo stradone impolverato, se tu vuoi andare, vai... e vai che io sto qui e aspetto Bartali scalpitando sui miei sandali”. P. Conte, Bartali in Un gelato al limon, 1979.


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