venerdì 10 luglio 2015

Introduzione a La testa nel Pallone di Rino Morales




L’occasione fa l’uomo ladro
Rino Morales



«Accidenti, quanto fa caldo.»
«È vero, speriamo che i ragazzi non soffrano troppo, e che si bagnino in continuazione. Non vorrei che si prendessero un’insolazione.»
«Ma no, vedrete che giocheranno come hanno sempre fatto, dando il massimo, secondo le loro abitudini. E si divertiranno. Piuttosto, offrimi una sigaretta, le mie le ho lasciate in macchina.»
Sabato, primo giugno 2013, siamo sulle gradinate del campo di calcio dove i nostri figli, Lorenzo, Luca e Marco, giocano a calcio, per assistere alla partita di chiusura dell’ultimo torneo estivo della loro squadra.
Io, Carlo e Maurizio.


Carlo racconta a Maurizio una storia capitataci qualche settimana prima, quando i due nostri figli giocavano e Lorenzo, il suo, era fermo per un infortunio.
«Conosci quel tizio alto, con gli occhiali, dall’incedere distinto che viene a vedere il figlio, di un paio d’anni più grande dei nostri?»
«No, non ricordo, aspetta...»
«Ma come non ricordi, aspetta come si chiama... no, non lo ricordo, ma guarda... se lo vedi lo riconosci subito.»
«Ma sì,» intervengo io, «quel tizio che sembra un ragioniere, un impiegato di banca, sempre ben vestito, che arriva al campo portandosi appresso una valigetta e si siede in silenzio sulle gradinate. Talvolta ha con sé una macchina fotografica e scatta fotografie della partita, proprio non ricordi?»
«Ah, ho capito,» finalmente Maurizio ha messo a fuoco, «quello che porta la ventiquattrore per metterci l’ombrello pieghevole, la Gazzetta dello Sport e la confezione delle mentine per l’alito.»
«Sì, ecco, quello!» chiosa Carlo.
«Sai cosa ha combinato tre settimane or sono? Eravamo alla partita dei ragazzi più grandi e non stavano andando benissimo. Ad un certo punto suo figlio, che come sai è molto bravo, ha sbagliato un rinvio dalla difesa e dal suo errore è nata poi l’azione del gol, grazie al quale la squadra avversaria ha poi vinto la partita.»
«Appena quelli hanno segnato,» aggiungo io, «questo si è letteralmente scatenato: ha buttato per terra la videocamera, è sceso di corsa dalla tribuna, si è attaccato alla recinzione ed ha cominciato ad agitarla urlando come un ossesso. Ha letteralmente riempito di insulti il figlio, chiamandolo in tutti i modi possibili.»
«Ad un certo punto abbiamo avuto paura che gli venisse un coccolone, aveva le giugulari turgide, era tutto rosso in viso e la voce gli si è arrochita, come ad un cantante rock alla fine di un concerto.»
«Sono state necessarie tre persone per calmarlo e riportarlo nei ranghi,»  aggiunge Carlo, «e fino alla fine della partita ha continuato a correre avanti e indietro davanti alle tribune come un leone in gabbia!»
«Insomma,» ho concluso, «gli è partito l’embolo!»
Maurizio, che a differenza nostra ha una certa pratica editoriale, avendo in passato pubblicato diversi libri di storia e di narrativa, ci pensa su un attimo, si gira verso di noi e dice:
«Perché non lo scriviamo?»
«Cioè?» lo apostrofa Carlo.
«Cioè, perché non scriviamo una storia su questo episodio e su questa persona, anzi perché non ci mettiamo insieme e scriviamo una raccolta di racconti sul mondo dello sport? Almeno secondo la nostra esperienza, sul mondo del calcio giovanile, sul ciclismo, sul basket, sulla boxe. Raduniamo un certo numero di amici, parliamo un po’ delle nostre esperienze e proviamo a metter giù qualcosa. Poi, chissà, magari riusciamo a trovare anche il modo di pubblicarlo!» Io e Carlo ci guardiamo e secondo me ad entrambi viene lo stesso pensiero: «Questo è pazzo! Chi è capace di scrivere? Io sicuramente no!»
Invece poi siamo stati capaci di trovare il coraggio, la capacità e la voglia di metterci in gioco e di provare a scrivere le storie di questa raccolta, noi due, Maurizio e tutti gli amici che siamo riusciti a contattare, personalmente o tramite mail, sms, messaggistica e quanto di più mette a disposizione la tecnologia ai giorni nostri. E non ci abbiamo impiegato nemmeno tanto, se pensate che, in fondo, l’idea l’abbiamo accarezzata la prima volta solo il primo giugno di quest’anno.
Mentre scrivo queste righe mi viene però una domanda: «Perché? Perché l’abbiamo fatto?» Mi arrogo il diritto di rispondere per tutti: non per fama, né per denaro, naturalmente (ma quale fama? Ma quale denaro?).
Ma solo ed unicamente perché ci siamo divertiti.
Divertiti a scrivere, ad impaginare e ad illustrare.
Come spero che si divertano tutti coloro i quali vorranno leggere questi racconti.

Rino Morales, dirigente medico ematologo presso l’Azienda Ospedaliera di Desio e Vimercate. È autore di numerose pubblicazioni scientifiche nel campo dell’Immunoematologia, della Virologia, della Biologia Molecolare e della Medicina Rigenerativa.

11 commenti:

  1. La prevenzione dell’embolo


    L’italiano ha un solo vero nemico:
    l’arbitro di calcio, perché emette un giudizio
    Ennio Flaiano

    Seduta su quella sedia del Pronto Soccorso dell’Ospedale “Sacco”, in mezzo alla gente che attende di essere visitata, o che attende notizie di amici o parenti, Sabine pensa al motivo per il quale oggi pomeriggio ha deciso di seguire il marito, invece di andarsene alla Rinascente con le sue amiche, come ha sempre fatto in passato quando Roberto andava alla partita di Luca, loro figlio. Si chiede pure se la sua presenza, oggi, sia stata la causa di quel che è capitato. O se sarebbe capitato comunque. L’Ospedale “Luigi Sacco”, polo universitario conosciuto anche come Ospedale Vialba, è una tra le più importanti strutture ospedaliere milanesi. Sorto nel 1927 come sanatorio, alla stregua dell’Ospedale “Santa Corona” di Garbagnate Milanese, costruito cinque anni prima.
    Sabine è una sana, equilibrata e disinteressata signora tedesca, figlia di un toscano ma nativa di Berlino. E’ la moglie, felice fino ad un paio di ore or sono, di un sanguigno italiano di nome Roberto, milanese da molte generazioni e tifoso depresso dell’Inter. È anche la madre di Luca, ragazzino di tredici anni molto esperto di “4-4-2”, di “4-3-3” e di “3-5-2”, quasi quanto, per gioia della mamma, del teorema di Pitagora o della Rivoluzione Francese.
    Non avrebbe mai pensato, in quella estate del 1995, che quella storia balneare con il giovane italiano rampante l’avrebbe condotta fin qui. Ma la domanda è: se l’avesse anche solo lontanamente immaginato, avrebbe mollato le sue due amiche al “Bagno 110 da Giorgio” a Milano Marittima, per andare a sdraiarsi in pineta con Roberto, conosciuto da poche ore sotto gli ombrelloni? Ora Sabine si sforza di rispondere a questa domanda, perché, in effetti, in molti anni di vita comune, di amore e di stima verso quest’uomo, questo lato oscuro della sua personalità le era veramente sfuggito. Era stata fino a quel momento una vacanza divertente: le tre ragazze erano arrivate dopo un viaggio durato quasi due giorni, attraversando l’Austria e l’Italia nord orientale con la vecchia utilitaria di Sabine, allora studentessa ventiquattrenne. Avevano preso alloggio in una pensioncina a basso prezzo, dove la via Gramsci confluisce con la via Toti, uno dei grandi vialoni alberati che conducono agli stabilimenti balneari e si erano subito precipitate in spiaggia! Tanto sole, tanta birra, dormire poco, tanto rumore nelle discoteche. Questo era quello per cui erano venute e questo avevano effettivamente avuto da questa vacanza. L’ultimo loro desiderio, cioè conoscere e magari portarsi a letto qualcuno di questi sudati e focosi contenitori di testosterone italiani, invece, ad ormai una settimana dal loro previsto rientro in patria, non si era ancora avverato. A questo Sabine stava pensando, annoiata e un po’ frustrata da questo fatto, mentre, sdraiata sul lettino dello stabilimento balneare, cercava di catturare l’ultimo sole del pomeriggio e della sua vacanza. Era talmente assorta nei suoi pensieri che quasi non sentì quello che quel ragazzo le stava chiedendo:
    “Ehi, mi senti? Mi capisci? Parli italiano? Du iou spik inglisc?”
    Il tono della voce era pressante, “ mi daresti il pallone, per piacere?” “ è finito sotto il tuo lettino!”. Per fortuna lei parlava un discreto italiano, frutto della educazione del padre, che da Piombino era emigrato in Germania alla fine degli anni ’50 e che li si era sposato, e dei quindici giorni già passati a Milano Marittima, parlando per se stessa e per le sue amiche. “Scusa sai, ma non me ne ero accorta, adesso te lo prendo subito”, rispose mentre in realtà pensava che questi italiani, con la loro mania del pallone erano veramente pallosi!. Si chinò, raccolse la palla da sotto il lettino e, porgendola con entrambe le mani a quell’ombra che si stagliava contro sole rimase fulminata. “Mamma che bello!”, pensò nella lingua del padre. Lui se ne accorse e, recuperando lo sguardo dell’italiano a caccia: “ciao io sono Roberto, tu come ti chiami?”

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  2. La loro storia, cominciata così, nella maniera più idiota possibile, permise a Sabine di passare l’ultima settimana delle sue vacanze come aveva desiderato: alternando il letto della camera che condivideva con le sue amiche, al tappeto di aghi di pino marittimo caduti dagli alberi della pineta, quando il sole calava, le ombre prendevano possesso della pineta ed il rumore degli animali veniva sostituito dai sospiri delle coppiette.
    Negli anni successivi, il sesso quotidiano della vacanza a Milano Marittima venne sostituto da parecchi trasferimenti sull’asse Berlino – Milano, fatti prima da uno e poi dall’altra, fino al fatidico giorno in cui Roberto, ormai con un futuro consolidato da funzionario di banca, le aveva chiesto di venire a Milano a vivere con lui.
    Ma torniamo al presente e ai pensieri di Sabine, ormai signora milanese d’adozione, esperta in marketing di una multinazionale tedesca dell’auto con sede a Milano, mamma di Luca, con un bel giro di amicizie nella Milano del ceto medio e con una bella casa in via Ottoboni, il cuore verde del quartiere signorile di San Siro, a pochi passi dall’ippodromo e dallo stadio di calcio . Sabato, dicevamo, rinuncia a seguire le sue amiche del cuore Barbara e Patrizia, che come sempre vanno a fare compere in centro e decide, cedendo alle pressioni del figlio e, cosa alquanto sospetta, senza alcun incoraggiamento da parte del marito, di accompagnarlo con Roberto alla finale del torneo estivo degli esordienti dell’Aurora, storica società di calcio di Quarto Oggiaro, nella quali fila milita Luca, centrocampista con spiccate caratteristiche offensive.
    Come lo vediamo oggi, Quarto Oggiaro è il prodotto dell’edilizia popolare degli anni 50-60, quando, nei quartieri periferici di Milano andava concentrandosi la quasi totalità degli immigrati provenienti dalle regioni del sud Italia, i “terùn”. Questi costituirono il nucleo sociale del quartiere per quasi quarant’anni, cioè fino alla seconda grande ondata di immigrazione della fine degli anni 90, quella dei “negher” dei “maruchìn” e dei “limuncin”, cioè, in un etimo politicamente corretto, delle popolazioni sub sahariane, nord africane e provenienti dalla Cina. Da molti considerato un quartiere dormitorio, in realtà porta dentro di sé la connotazione sociologica di un vero e proprio paese e adesso, con la riqualificazione urbanistica, anche la struttura.
    Comunque, va ricordato che il vero, originale “homo sapiens quartoggianensis” arriva da lì, da dove ci siamo detti e, quindi come sostiene in uno dei suoi romanzi Biondillo: “…tutti hanno almeno tre televisori, ma quando arriva l’estate lo spettacolo si sposta nei cortili. Tutti piazzano la sedia fuori, qualcuno fuma, altri ciucciano un ghiacciolo, l’urlaurla si fa minaccia, insulto pesante sull’altro e su tutte le generazioni precedenti, senza dimenticarsi di rimarcare le attività illecite ed immorali delle rispettive compagne e le corna sicure dei loro maschi...”
    “Allora Sabi, vieni con noi adesso o arrivi al campo quando comincia la partita?” Roberto sente più di suo figlio Luca lo stress della finale. Infatti a più di due ore dall’inizio della partita già si agita, cammina avanti e indietro per casa, stressa il figlio con urla del tipo: “la borsa è pronta? Ti sei ricordato i parastinchi? E la giacca da rappresentanza?”
    “Ma papà siamo a metà giugno, fuori ci sono trenta gradi!”
    “Non importa, la giacca di rappresentanza ci vuole, soprattutto se devi ritirare la coppa.”
    “Si, tu pensi alla coppa, ma hai presente contro chi giocheremo?”
    “TU DEVI CREDERCI! SE ANDIAMO IN CAMPO CON QUESTO ATTEGGIAMENTO REMISSIVO SICURAMENTE PERDIAMO!”
    Con un uso veramente convinto della prima personale plurale.
    “No Roberto, ho pensato di arrivare all’ultimo momento. Finisco di lavare i piatti del
    pranzo, faccio un riposino e poi vengo. Tanto giocano a Quarto, vero?”
    “Si, giochiamo in casa, alle 16.00.”
    Ancora noi.
    “Allora ci vediamo al campo.”

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  3. L’atmosfera dello stadio dell’Aurora prima delle partite è veramente particolare: l’ambiente è piccolo, quasi tutto campo, quindi nell’attesa di recarsi alla tribuna, la gente tende ad accalcarsi sotto la tettoia prospiciente il piccolo bar del campo. D’inverno e quando piove rappresenta un sicuro riparo dall’acqua, anche se non dal freddo, mentre d’estate è un miscuglio di caldo, di umido e di odori: dopobarba, colonie e profumi, sudori per tutti i gusti, tabacco e salamelle. La gente si accalca; ci sono i genitori dei calciatori di casa ma ci sono anche i vecchietti di Quarto, che non sapendo cosa fare, vengono a guardare la partita: in televisione (perché il bar ha la parabola) o sul campo. Oppure giocano a carte sui tavolini all’aperto. C’è quello che urla e sputacchia mentre parla e quello che si porta il panino da casa e ordina solo un “bianchino”, che così si risparmia, oppure quello che arriva direttamente con il carrello del discount della via Lessona dove è appena andato a fare la spesa, lo parcheggia fuori dalla cinta del campo, tira fuori il sacchetto della spesa appena fatta ed entra nel bar: ordina e mangia un toast con una coca e naturalmente se ne va dimenticandosi di pagare il conto. Il ragazzo da dietro il banco, appena se ne accorge tenta di rincorrerlo, ma lui, novello capitano Kirk, ha già ritirato il carrello fregato al discount, con questo è saltato sopra l’astronave Enterprise e si è teletrasportato chissà dove, alla ricerca di nuovi mondi o di nuovi panini!. Altro che rallentati, quando è necessario essere veloci, questi lo sono, sia di testa che di gamba! Oggi c’è anche Ugo, quello che vive in macchina. E’ un sessantenne distinto, pensionato della pubblica amministrazione, con una moglie ed una figlia. La sua famiglia abita in uno dei condomini della via Arturo Graf e lui, tutte le mattine alle otto, ben lavato e sbarbato esce da casa, sale sulla sua vecchia Alfasud e lì rimane, spostandola di qualche metro in avanti o indietro. In continuazione. Si porta sempre dietro da bere e da mangiare e, con ogni condizione metereologica resta lì a mangiare, tutti i mezzogiorni. Poi la sera, scende dalla macchina, la chiude e va a cenare a casa. E’ chiaro che ha dei problemi, ma nessuno di quelli che lo conoscono si è mai preoccupato di cercare di capire perché si comporta così, magari chiedendo alla famiglia. Ci si limita a tollerarlo, anche quelle rare volte che abbandona l’abitacolo e viene al bar dell’Aurora, come oggi.

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  4. In genere gli argomenti di conversazione sono sempre gli stessi: “chi compra l’Inter quest’anno?”, “da quando se ne è andato Mourinho non hanno più vinto niente”, “Moratti, sarebbe ora che comprasse qualcuno all’altezza del blasone della squadra”, “ma smettetela di piangere, che avete vinto gli scudetti perché la Juve era in serie B ed il Milan era stato penalizzato.”
    Ed invariabilmente si giunge all’insulto.
    I toni non sono esattamente quelli di una biblioteca, anzi, la voce più bassa è simile al rumore che si sente a San Siro durante un concerto di Ligabue, ma poi, subitaneamente, cala un silenzio spettrale e la folla davanti al bar si divide in due ali, aprendosi in un corridoio.
    Arriva la squadra avversaria. Diretta agli spogliatoi.
    Sotto gli occhi di tutti passa prima l’allenatore, portandosi in faccia tutta la sua grinta, giusto per far capire agli autoctoni che lui ha le palle e quindi, per la proprietà transitiva anche i suoi ragazzi ne sono muniti. Arrivano poi i dirigenti, compassati e sorridenti, che lanciano saluti a destra a manca, a tutti e a nessuno, manco fossero dei divi del cinema sulla passerella del festival di Cannes, quindi sfilano gli atleti in fila per due, gli sguardi seri e fissi avanti a non guardare nessuno, con le loro borse e divise tutte uguali e tutte pulite. Infine, dietro loro, transita un corteo di borghesi di entrambi i sessi, i genitori, che si guardano in giro con gli sguardi smarriti, parlando sottovoce tra loro: “ma dove cazzo siamo arrivati?”, come se il campo della loro squadra fosse molto diverso da questo! I campi di calcio della squadre dei dilettanti, a parte qualche rara isola felice, sono tutti uguali!
    In genere, quando tutto questo succede, manca circa un’ora all’inizio della partita. Roberto è già lì da almeno mezz’ora, fumandosi una sigaretta via l’altra e continuando a tossire, con accessi di tosse nervosa, che nulla hanno a vedere con il fumo, ma molto con lo stato di ansia incipiente. Parla di tattica con il padre di Lorenzo e di Alessio, la seconda punta ed il difensore centrale, mentre il padre di Marco, il portiere, li ascolta un poco distante sorseggiando una birra. Una mamma cerca di spiegare ad un’altra cos’è il fuorigioco: questa la guarda annuendo seria seria e con l’aria pensierosa di chi ha capito tutto, ma dentro di se continua a pensare se è fuorigioco quando il pallone esce dal campo e finisce in tribuna. Sono le loro riunioni tecniche che, ad onta delle pari opportunità, sono sessualmente ben distinte: da una parte chi ne capisce o pensa di capirne sul serio, il maschio, dall’altra le povere tapine che non si sa perché vengono a disturbare il rito propiziatorio ad Eupalla, divinità autoctona del calcio soprattutto parlato, rompendo la liturgia con la loro presenza ignorante.

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  5. I ragazzi invece sono già negli spogliatoi. Il mister ha portato con sé la lavagnetta mignon, formato A4, sulla quale tutte le volte continua a spiegare loro l’unico schema possibile in questa squadra: “Allora, ragazzi, appena prendiamo il pallone lo diamo a Luca, che lancia Lorenzo oltre la linea del centrocampo”. “Tu Lorenzo se scatti sulla fascia, ricordati che ti devi accentrare, altrimenti se arrivi in fondo al campo rischi di non sapere a chi dare il pallone, così, invece, se nessuno ti segue puoi tentare di andare in porta da solo.” Come se la difesa avversaria non esistesse! “E voi ragazzi, per piacere, massimo due tocchi e poi via, scaricare la palla al compagno. “Accompagnate Lorenzo quando scende, soprattutto tu, Luca. Appena gli hai dato la palla, corri subito in centro, a dettare il suo nuovo passaggio”. Marco, va bene che in mezzo ai pali sei un gatto, ma porca miseria, vediamo di farla un’uscita ogni tanto, incontro all’avversario che viene in porta, e poi PORCA PUTTANA, SEI TU CHE DEVI GUIDARE LA TUA DIFESA, VOGLIO SENTIRTI URLARE COI TUOI DIFENSORI, COME STO FACENDO IO IN QUESTO MOMENTO.”
    Sempre le stesse cose, ripetute da un anno, e sempre condite da segni veloci di pennarello sulla lavagnetta lavabile che tiene saldamente in mano e che nessuno riesce a vedere. I ragazzi fanno finta di ascoltare, tirandosi calci da sotto le panche dello spogliatoio, oppure nascondendo l’uno le calze o le scarpe dell’altro. Il mister ignaro continua, non accorgendosi di nulla, mentre Napoleone, il dirigente - massaggiatore - guardalinee - autista e factotum dell’Aurora, sta riempiendo le boracce di acqua, direttamente dal rubinetto del bagno. L’acqua delle borracce servirà per tutto: ai ragazzi per bere e per bagnarsi la testa, visto che fuori c’è un caldo canalicolare e a Napoleone, nella sua veste di massaggiatore, in occasione di botte, contusioni, abrasioni, ferite, ematomi, escoriazioni, traumi cranici, toracici e addominali. Insomma, l’acqua di Lourdes. Finalmente arriva il momento: l’arbitro chiama le squadre in campo, sotto la tettoia davanti al bar come d’incanto il cicaleccio si interrompe e tutto il pubblico, vecchietti, papà e mamme, si riversa verso l’ingresso e lentamente prende posto in tribuna. La distribuzione del pubblico sulla tribuna risponde ad una regola non scritta che vuole che tutti i supporters della squadra di casa occupino la parte sinistra delle gradinate, guardando il pubblico dal campo, mentre la parte destra è occupata dai tifosi ospiti. In mezzo ci stanno i vecchietti, che tanto a loro non glie ne frega una sega di fare il tifo; sono lì solo per lamentarsi: dell’allenatore, dell’arbitro, dei guardalinee e dei ragazzini, che “quelli non corrono, pensano solo alla figa e non al bene della squadra!”

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  6. Talvolta al centro, mescolati ai vecchietti ed alle tapine che non hanno trovato posto o sono state esiliate dall’area tecnica dove siedono i mariti, compaiono anche strani personaggi: troppo giovani per appartenere al gruppo dei vecchietti, masticano chewing gum a bocca spalancata, fumano a ripetizione buttando le cicche sulle gradinate e parlano tanto al cellulare, gettando ogni tanto uno sguardo annoiato al campo dove i ragazzini saltellano, facendo esercizi di riscaldamento. Sono gli osservatori delle squadre professionistiche, che vengono a cercare giovani talenti sui campi dei dilettanti. Oggi i tifosi ospiti sono organizzati: saltano fuori i cuscinetti con i colori sociali della squadra, uno striscione di cinque metri per due con sopra scritto “FORZA RAGAZZI, FOSSA DEGLI ULTRAS” e un paio di trombe. Ci sono anche parecchie bottiglie di birra già vuote, abbandonate sugli spalti e questo non è un buon segnale. Roberto ed i suoi tre soci decidono di continuare la riunione tecnica, scegliendo l’angolo più lontano della tribuna. La terna arbitrale arriva da fuori, non è il solito trio casalingo di sempre con i dirigenti che fanno anche il guardalinee, uno per squadra. Le squadre entrano ed i ragazzi si schierano tutti in fila a centrocampo ai due lati della terna e, al fischio dell’arbitro, salutano il pubblico alzando le braccia al cielo. Il pubblico rumoreggia e fischia, le mamme applaudono e Pino, il magazziniere settantenne che oggi ha il suo momento di gloria e funge da speaker, da il benvenuto a tutti e legge le formazioni, storpiando magistralmente i cognomi dei ragazzi della squadra ospite.
    Roberto è già alla quinta sigaretta da quando è arrivato, un’ora e mezza or sono, cioè si è fatto in novanta minuti la dose di una intera giornata. Non riesce a star fermo, continua a scendere e a risalire i sei gradini della tribuna, continuando a disturbare quelli, seduti, che vorrebbero vedere l’incontro.
    “Allora, hai finito o no di andare su e giù?”
    “Stai un po’ tranquillo, no!”
    “La vuoi finire di andare avanti e indietro, che non ci fai vedere nulla?”
    Voci sparse e quasi sovrapposte dalla tribuna.
    Nel frattempo arriva Sabine.
    Accede alle tribune e fa un timido tentativo di andarsi a sedere vicino al marito, ma capisce subito che non e’ giornata. Lui le bofonchia un “ciao” distratto e si gira ancora a parlare con il padre di Lorenzo, come se lei proprio non esistesse:
    “Cazzo ma hai visto chi ha messo esterno di sinistra? Ma quando la capirà che quello è una sega e ci costringerà a correre il doppio per rimediare a tutte le sue cazzate?”
    “Scusa costringere a correre chi?”
    “Ma si dai Luca, e chi altrimenti?”
    “Beh, mi sembrava che costringesse te a correre, hai detto noi!”
    “Comunque si!, hai ragione, lui e il calcio sono due entità assolutamente estranee l’una all’altra, guarda come stoppa il pallone: non ha due piedi, ma due valigie alla fine delle
    gambe! Intanto Sabine cerca di capire dove potrà andare a sedersi; è sola, suo marito le ha inviato il messaggio, neanche tanto subliminale: “stattene fuori dai piedi fino al fischio di chiusura, che io devo vedere la partita e studiare le eventuali correzioni alla formazione.”

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  7. Si guarda intorno un po’ spaesata e poi alla fine decide: vede la mamma di Jonathan, l’esterno di fascia destra, che conosce e si avvicina a lei, naturalmente nella parte centrale della tribuna, proprio vicino a dove finisce lo striscione della fossa degli ultras, troppo vicine ai tifosi ospiti.
    “Ciao Marina, come stai?”
    “Sabine, che ci fai qui? Come mai ti si vede su un campo di calcio, vuoi far piovere?”
    “Ma si, Luca ha tanto insistito, facendomi sentire in colpa, perché non condivido questa passione con lui e con il papà. A me non interessa vedere ventidue ragazzini correre dietro ad una palla. Non mi è mai interessato il calcio, anche se in effetti è stato un pallone a farmi conoscere Roberto!”
    “Beh, ma oggi sei venuta…”
    “Certo, ma proprio perché mi sentivo in colpa. Ma poi hai visto i nostri uomini? Ci lasciano da parte, come se non esistessimo!”
    “Dammi retta, è meglio se ce ne stiamo un po’ in disparte. Credimi”
    Messaggio subliminale? No.
    Pura e semplice constatazione dell’ovvio!
    Infatti la partita si accende: Luca apre il gioco verso destra, proprio a Johnatan, il quale, appena passata la linea centrale modella un bellissimo lancio che attraversa tutto il campo e va a finire appena oltre la tre quarti sulla fascia sinistra, dove avrebbe dovuto trovarsi l’esterno incapace e dove invece arriva come un treno in corsa Lorenzo, che solo quello sa fare ma lo fa bene. Raccoglie il pallone con un preziosismo che chissà come si è pensato ed ha realizzato, riuscendoci. Raccoglie anche il calcione che gli tira il difensore che entra in scivolata a piedi uniti, centrando prima la caviglia e dopo la palla.
    Da sinistra s’alza un grido:
    “Cazzo arbitro, ma sei passato dall’ottico stamattina? E’ fallo!”
    Da destra s’ode la pronta risposta:
    “Ma cosa dici, comprateli tu gli occhiali, non vedi che ha preso il pallone!”
    Napoleone agguanta l’acqua santa e si scaraventa sul rettangolo di gioco, l’arbitro lo ferma, Lorenzo urla per terra.
    “Arbitro si è fatto male, fammi andare a vedere!”
    “Lo decido io quando deve entrare in campo” e subito” dai entri.”
    Giusto per stabilire un minimo di gerarchia.
    Napoleone arriva sbuffando come un mantice dove il ragazzo ancora geme e si lamenta, impugnando la borraccia come un estintore e cominciando ad irrorare la caviglia come se dovesse spegnere l’incendio delle torri gemelle.
    Poi, commette il primo errore:
    vede il difensore che guarda la scena e lo apostrofa: “chiedigli scusa, almeno, lo hai azzoppato!”
    Interviene l’allenatore con le palle: “non si chiede scusa a nessuno, non è stato fallo, non si chiede scusa per una azione di gioco!”
    Napoleone è un pezzo d’uomo di 190 cm e 110 kg di muscoli e pancia. Ha un cuore d’oro, ma ha anche un piccolo difetto: si porta sempre in tasca un litro di buona ed infiammabile benzina, che prende fuoco immediatamente se una situazione non gli piace.
    E questa risposta proprio non gli è piaciuta. Molla Lorenzo per terra a guaire, butta in fuori il petto e urta clamorosamente contro quello dell’allenatore con le palle, il quale naturalmente (e altrimenti che palle avrebbe?) reagisce allungando un braccio e spingendolo via. Da destra cominciano i cori di scherno: “Buhhhhh, scemo, cosa sei venuto a fare, il duello all’O.K. Corral?”
    “Stai attento, che devi tornare a casa e non è detto che ci ritorni intero”, dal coro di sinistra all’altro duellante.
    Sabine è esterrefatta!
    “Ma come, questa è una partita, un gioco, un divertimento!”
    Povera ignara, e sono passati solo dieci minuti dall’inizio del gioco.
    Marina sospira, con la faccia di chi vorrebbe dire “già visto, già visto: niente di nuovo oggi!”
    Sul campo intervengono l’arbitro e i due guardalinee a sedare la rissa, e il Direttore di gara, comincia un battibecco con il Pompiere:
    “Lei, vada fuori!”

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  8. “Perché?”
    “Per contegno rissoso e non adeguato ad una partita di calcio!”
    “Cioè sono espulso?”
    “Certo che è espulso, non lo capisce l’italiano?, vada fuori!”
    “Ma se sono espulso, dov’è il cartellino rosso?”
    L’arbitro si ferma, si mette le mani prima nella tasca della giubba, poi nella tasca di dietro dei calzoncini della divisa, poi nella tasca davanti a destra ed infine nella tasca davanti a sinistra.
    Per finire fissa intensamente entrambe le mani.
    Purtroppo il miracolo non è riuscito:
    “Non ce l’ho il cartellino…”
    “Ah, Ah, arbitro. Niente cartellino, niente espulsione!”
    “Se ne vada -sempre più furente- se vuole solo immaginare di rientrare in un campo di calcio nei prossimi dieci anni.”
    Interviene il mister di casa , che prende Napoleone e lo trascina per un paio di metri verso il cancello di uscita dal campo, giusto per ricordargli la strada per andarsene.
    “Dai Napo, non aumentare il casino, che mi pare che oggi ce ne sia abbastanza!”
    Infatti, finalmente se ne va dal campo, ricordando al direttore di gioco le sue origini postribolari.
    Intanto a fatica Lorenzo si rialza, prima a sedere e poi in piedi sul campo. Accenna ad un passo di piccola corsa, batte due-tre volte il piede colpito per terra, nel primo esercizio di fisioterapia che insegnano ai bambini della scuola calcio (batti il piede!, batti il piede!), unitamente al credo assoluto nei confronti dell’acqua di Lourdes e finalmente il miracolo avviene: cammina, trotterella, corre senza zoppie di sorta. Lo spettacolo può ricominciare. In pochi però notano lo sguardo che lancia al difensore che riprende la sua posizione in campo e quasi nessuno, a parte Napoleone, che adesso all’esterno del rettangolo di gioco è aggrappato alla rete che divide questo dalla tribuna, leggono il labiale che gli rivolge:
    “Ti faccio un culo così!” Napoleone sorride ed annuisce con il capo. Sono cominciati i guai.
    Sulla tribuna intanto Sabine e Marina continuano la loro conversazione, l’una ignara di essere seduta sopra una bomba alla quale è stata tolta la sicura, l’altra speranzosa di uscirne oggi con danni contenuti.
    “Marina, hai visto come è rissoso il dirigente della nostra squadra?”
    “Beh, ma tu hai sentito che tracotante è l’allenatore della squadra avversaria? ti è sembrato giusto impedire al bambino di chiedere scusa a Lorenzo?”
    “In realtà io non so se quel bambino avesse davvero voglia di scusarsi, di certo è che gli adulti, con questo modo di fare, non sono di esempio ai ragazzi!”
    Nell’area tecnica i commenti sono di tutt’altro spessore: “Vedrai che gli farà un culo quadrato, appena gli si presenterà l’occasione”, mormora il padre di Lorenzo a Roberto, che intanto sta rischiando di bruciarsi le dita con il mozzicone acceso dell’ottava sigaretta.

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  9. La partita scivola via abbastanza velocemente, è divertente, bella da vedersi e poi il tifo per il momento è contenuto nei toni e nelle espressioni. La tromba suona ogni tanto, salutata da una salva di fischi provenienti dall’area tecnica di sinistra, ma niente più. Il risultato è ancora fermo sullo zero a zero e, malgrado le numerose azioni, nessuno degli attaccanti delle due squadre è riuscito ad essere veramente pericoloso e ad impensierire i due portieri. L’arbitro però, dall’episodio dell’espulsione di Napoleone continua ad essere beccato da entrambe le tifoserie: per un fuorigioco non assegnato o per un fuorigioco inesistente assegnato, per una palla giudicata fuori o per una palla non giudicata fuori, a seconda che i rimbrotti arrivino da destra o da sinistra. Triste destino: comunque vada, trovi sempre qualcuno che apprezzi le doti di moglie, madre o figlia. Napoleone, aggrappato alla rete di recinzione sembra in trance: ha ancora sulle labbra il sorrisetto malizioso di prima. Intanto, alla rete di si aggrappano anche due signore, le mamme di due atleti della squadra ospite; una porta un paio di occhiali da vista con la montatura griffata, l’altra fuma un sigaretta elettronica, pescandola periodicamente da un contenitore che porta appeso al collo, come impone la moda di quest’anno. Sembrano entrambe appena arrivate dallo shopping in via Montenapoleone.
    Sabine finalmente è riuscita a riacquistare un po’ di calma e si gode, da inesperta, il gioco. A pochi minuti dalla fine del secondo tempo, mentre le squadre ancora sono ferme sul risultato di parità, avviene l’accensione della miccia. Il tutto accade in pochi secondi, ma per Sabine, adesso che seduta su quella sedia ci ripensa è come se tutta l’azione si svolga al rallentatore. In una azione simile a quella precedente, Lorenzo, imbeccato da un altro lancio magistrale, questa volta di Luca, si invola sulla fascia sinistra con la palla al piede; salta il centrocampista avversario e comincia a convergere verso il centro dell’area.
    Il difensore falloso, che, consapevole della minaccia ricevuta durante il corso della partita si era tenuto prudenzialmente a distanza da lui, adesso è costretto ad affiancarlo, tentando con il corpo di spingerlo verso la linea del fallo laterale. I due ragazzi corrono spalla contro spalla lungo la linea del fuorigioco più vicina alla tribuna, il difensore sgomita, Napoleone, a pochi metri da loro urla, tutto il pubblico sente il suo - “Adesso!” - ma pochi riescono a vedere il gomito di Lorenzo che scatta e finisce sul naso del difensore. L’arbitro, poverino, appartiene ai più che non hanno coscienza ed infatti non ci si raccapezza quando sente la destra che comincia ad urlare, accolta da salve di fischi dalla sinistra. Intanto il ragazzino è per terra e Lorenzo, che l’incosciente non ha fermato, fila sparato in porta, tira e segna.
    Naturalmente l’ignaro convalida.
    In tribuna si scatena il finimondo, l’area tecnica di destra inveisce violentemente, perdendo l’aplomb manifestato all’ingresso.
    E’ un fiorire di dialetti:
    il barese, “Cagammèrd!!”, “Murt ca tin!!”;
    il palermitano, “Tu si nuddu ammiscatu ccu nenti !!!”;
    e due lingue autctone: “Va a ciaparlo, Mona!, Ciò”, “Ma va da via l cù, bigul!” Non si sa se diretti all’arbitro o a Lorenzo. Che a vederli all’ingresso, con la loro aria spocchiosa, sembravano tutti arrivati dall’ Università Cattolica del Sacro Cuore.
    Nel frattempo Napoleone si attacca saldamente alla rete urlando in lingua universale: “GOOOAAALL!!!!”, e la agita violentemente, con movimento ritmato.
    Il ballo ritmico della recinzione coinvolge le due madame che ci sono attaccate: sbatte a ripetizione contro gli occhiali griffati, facendoli cadere a terra e contro la sigaretta elettronica che la signora proprio in quel momento stava fumando e che le finisce direttamente sull’ugola, provocando nella tapina un conato di vomito.

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  10. La poveretta si gira e restituisce il pranzo di mezzogiorno direttamente sul vestito alla moda della sua vicina, che nel frattempo si stava chinando a raccogliere gli occhiali. Questa urla, si gira per spostarsi dalla zona inquinata, scivola e finisce gambe all’aria, mostrando urbi et orbi che non solo il vestito e gli occhiali porta griffati, ma anche il tanga monofilo. Dalla sinistra e dalla zona dei vecchietti, che nel frattempo sono tutti resuscitati, cominciano i commenti sbavanti : “Ehi, vieni qui che mi serve il filo interdentale!”, “Brava, il tuo è sicuramente lo spettacolo migliore!”, “Oh le le, Oh la la, faccela vede’, faccela tocca’!”
    A Sabine manca il respiro dalla vergogna. Fa per alzarsi e andarsene. Guardando il marito con uno sguardo sprezzante e apostrofandolo con voce strozzata: “Disgraziato, ma dove porti nostro figlio tutte le settimane?”, lascia Marina di sasso, si alza in fretta e, cercando di correre giù per la tribuna, urta clamorosamente contro il poeta barese che regge lo striscione della fossa degli ultras, schiacciando involontariamente la sua mano. Questo, con lo scafoide triturato dal tacco del sandalo di Sabine, lancia un urlo per il dolore, cominciando ad ululare come neanche un coyote dell’Arizona. Il suo collega di Palermo, cedendo prontamente all’idea della premeditazione e del complotto organizzato, se ne frega del fatto che sta relazionandosi con il gentil sesso e le allunga uno spintone, urlando, nella lingua dei letterati della sua terra: “Ecchemmincchiaèè, !!!”
    Sabine non traduce ma cade, per fortuna trattenuta da parte del pubblico dei vecchietti che già che ci sono allungano le mani, palpeggiandola qua e là. Roberto, che avendola sentita sbraitare si era girato a guardare cosa volesse, assiste alla scena e, a guisa di Orlando, particolarmente furioso, parte alla carica, brandendo la dodicesima sigaretta come una lancia. Salta dall’area tecnica di sinistra, passa come una meteora attraverso il Centro vecchietti, gettando uno sguardo a Sabine per sincerarsi che non si sia fatta male e che la compagnia della prostata non la tocchi più di tanto e giunge come una furia dal poeta siciliano, spegnendogli il mozzicone sul dorso della mano destra.

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  11. Ahinoi, la frittata si è realizzata. Se quello di Sabine poteva ancora essere considerato dall’Accademia delle belle parole un incidente, questo proprio non può passare inosservato e richiede pronta vendetta. Le truppe dei guastatori partono dall’area tecnica di destra diretti addosso a Roberto, il quale poverino non può far altro che soccombere e si ritrova buttato per terra e preso a calci da tutte le parti. Naturalmente l’esercito amico, nell’area tecnica di sinistra, fischietta, guarda gli uccelli volare o cerca di contare le aree del campo dove l’erba è più brulla. L’unico eroe che si immola è Napoleone, il quale peraltro ormai da mezz’ora non vedeva il momento di menare le mani. Risale i gradini a due per volta, arriva sul campo di battaglia e senza pensarci su comincia a menare mazzate con quei magli che porta alla fine degli arti superiori. La tromba suona come la sirena del Titanic la notte dell’iceberg. Nel frattempo, la partita sul campo viene sospesa e tutti i ragazzini, insieme, si fermano a centrocampo a guardare le tribune. Quello a cui stanno assistendo è uno spettacolo indecente. Tutta la parte destra della tribuna è una vera bolgia infernale, con gente che urla, che si picchia e con quel povero Cristo che, per terra continua a prendere calci. Allora finalmente il direttore di gara fa l’unica cosa giusta di questa giornata disgraziata: mette in bocca il fischietto e fischia, fischia tre volte, come se l’incontro fosse finito. Magicamente il parapiglia si arresta e tutti i facinorosi si girano verso il campo, potenza del riflesso di Pavlov: si sente il triplice
    fischio, la partita è finita, si abbandona la tribuna. Come se nulla fosse successo.
    Lì rimangono solo Roberto, in uno stato di dolorante semi incoscienza, Sabine piangente inginocchiata al suo fianco e Napoleone, che silenzioso li fissa. Da lontano, si sentono le sirene di un’ambulanza e quelle delle pattuglie dei Commissariati di polizia di via Comasina e di Viale Certosa. D’altronde, per sopravvivere a questo sport quando si è genitori in una società come la nostra, dove su dieci ragazzi intervistati su cosa vorrebbero fare da grande la maggior parte risponde “voglio fare il calciatore e sposare una velina”, bisogna aver ben chiaro quanto più volte ripetuto da uno che di calcio se ne intende proprio: “Il pallone è una bella cosa, ma non va dimenticato che è gonfio d’aria”. Giovanni Trapattoni


    Rino Morales

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